sabato 27 giugno 2009

Declino della Ragion di Stato. Un'interpretazione [1]

Fra le conseguenze della globalizzazione, oltre a quelle di rilievo economico e sociale, vanno tenute di conto le conseguenze sul piano politico-culturale. Non ci riferiamo alle conseguenze politiche, che sono un'estensione sul piano gestionale delle nuove condizioni economiche. Ci riferiamo qui, in particolare, alle conseguenze della cosiddetta "cultura politica", la quale è un tema ampio che ogni nazione si porta dietro, come la sua memoria storica che ne connota imprescindibilmente l'identità.
L'apertura delle frontiere, all'affratellamento di tutte le genti del globo, l'estensione a ogni individuo dei diritti umani - che vanno visti soprattutto come il trait d'union dell'egualitarismo che accomuna tutti gli uomini, rendendoli simili in quanto uguali (si badi bene: gli uomini sono simili perchè sono resi uguali dagli stessi diritti che, anzitutto, sono riconosciuti come propri di un ente astratto quale "l'uomo", categoria senz'altro più volatile dei singoli uomini che si incontrano in ogni spazio sociale della vita delle città e delle realtà più diverse) comporta delle conseguenze sul piano culturale-nazionale a cui nessuno sa trovare rimedio.
Non soltanto il rimedio non lo si trova, ma neppure lo si cerca. Non lo si cerca perchè non se ne vede la problematicità.
L'estensione delle norme più democratiche, dei diritti umani anzitutto, di tutte le libertà che sulla carta sono garantite agli abitanti delle democrazie liberali, provoca attriti e conseguenze critiche nei paesi che per ultimi ricevono l'ondata della globalizzazione, o perlomeno i paesi che solo in epoca recente hanno ricevuto il fenomeno-globalizzazione come mezzo di scardinamento di strutture desuete e collassate. Questi paesi, colonizzati dal nuovo internazionalismo economico, devono scendere a compromesso con l'internazionalismo culturale, dunque il liberalismo democratico che si impone anzitutto in una forma di assistenzialismo mondiale millantato perlopiù a parole. Ma chi si vede arricchito dalla nuova economia mondiale non può certo rifiutarsi di convertirsi alla nuova cultura e ai nuovi culti; non può neppure ricercare un motivo che possa usare per opporsi al cambiamento che porta benessere.
Il benessere è la promessa delle democrazie liberali, ma prima di tutto è (o forse era, e ora lo è un po' meno) la promessa della globalizzazione.
Perciò in Russia accettano volentieri le critiche dell'Occidente nei confronti dei suoi vecchi miti politici, e così fanno nei paesi della ex Jugoslavia titina, e soprattutto lo fanno i paesi dell'Europa centrale che sono stati sotto l'influenza sovietica.
Ricordiamo il romanzo 1984 di Orwell, in cui il continuo succedersi di guerre tra nazioni sempre diversamente assortite in coalizioni porta alla continua riscrittura della storia. La storia è riscritta a seconda dell'esito di ogni guerra, e così ogni volta si ha una storia diversa, sempre nuova, che impone di dimenticare il passato per accettarne uno nuovo. Si badi bene: si rinnega il passato che vigeva fino a quel punto, ma non per favorire il futuro o il presente. Si rinnega il passato soltanto per accettarne un altro, un nuovo passato.
Così la gente si disorienta, la comunità si frammenta, si perde il senso della cultura. Queste sono le conseguenze di tale rifiuto; ma l'accettazione di una nuova interpretazione di tutto, che è data dalla nuova riscrittura della storia, consente di ricomporre la comunità, di dare nuova coscienza alla gente, e pure di dare un nuovo senso alla cultura - che pure è inevitabilmente rinnovata.
Riscrivere la storia è un'operazione che comporta queste fasi: una rottura e una ricostruzione.
Il legame col passato è il problema che assilla chi si guarda alle spalle.
La soluzione che certe situazioni suggeriscono è: non guardarsi alle spalle.
La stessa politica culturale della globalizzazione invita a non guardarsi alle spalle.
Perchè? Perchè guardarsi indietro comporta l'individuare le differenze. Comporta il riscoprire i motivi che in tempi più o meno lontani hanno causato un attrito, che si è poi risolto in maniere avulse della retorica del liberalismo democratico.

Vorremmo in questa sede analizzare la crisi in cui è caduto un concetto piuttosto importante della storia delle dottrine politiche europee. Trattiamo della "ragion di stato", che ebbe in Machiavelli il suo primo interprete e il più ruvido codificatore.
Secondo l'autore fiorentino, la ragion di stato era un concetto già presente, seppure non presente alla coscienza degli uomini politici del tempo, nel Rinascimento italiano. Il concetto entrerà a far parte della coscienza degli uomini politici della successiva modernità, grazie anche alla fama che l'opera machiavellica godrà. Si tratta di una vera e propria forma di "ragione"; non di ragione nel senso di "ragione in sé", ma di razionalità finalistica in senso weberiano. Diremmo, kantianamente, che la ragione in sé è inconoscibile, e perciò dobbiamo accontentarci di conoscere la ragione fenomenica, che è pur sempre una ragione orientata verso qualcosa.
Vale la stessa riflessione svolta da Max Weber: la razionalità può essere formale oppure finalistica, ma a fronte della seconda, la prima si rivela irrazionale. Lo stesso Weber vide molto bene qual'era il destino della razionalità, e pure qual'era il destino della ragione. Tale destino è il progressivo svuotamento del contenuto interno alla forma. Giacché la ragione formale senza contenuto è vuota, la sua forma deve soggiacere sempre al fine che la plasma. Così in ogni ambito in cui la si adoperi: in ogni lavoro, come nella manutenzione di una macchina, in una gestione patrimoniale, o in una politica bellica nell'occasione di una guerra.
Machiavelli presentava una società italiana in cui la politica di tanti piccoli stati e principati era intimamente informata di una simile idea di ragione finalistica. Il fine, appunto, era la politica dello stato in lotta con altri stati, lotta che richiedeva sempre nuove alleanze e nuove aggressioni.
La ragion di stato, notiamo, era una conseguenza del fatto che la carta geografica era frammentata, e tra le parti non c'era possibilità di una conciliazione ultima.
Per comprendere la problematicità assunta dal concetto di ragion di stato nella seguente età moderna - in cui la frammentarietà diminuisce e nuove alleanze tendono a ricomporre gli scenari europei in modo pià coeso e armonico - dovremmo riferirci alle analisi effettuate dai classici Meinecke, Weber, Sombart, e infine Schmitt.

[continuiamo in altra sede]

mercoledì 24 giugno 2009

In attesa dell'Enciclica sulla Globalizzazione di Papa Benedetto XVI

Mancano pochi giorni alla data più attesa, quella che spicca sul calendario degli impegni politici dei leader mondiali. Il G8, che ancora non ha ufficializzato il numero delle nazioni che parteciperanno mediante una rappresentanza, si preannuncia un evento bollente. Il motivo dell'attesa sta anche nell'ultima novità, circa un ospite fuori dal comune, che entrerà a far parte dell'incontro delle grandi potenze, che si incontrano unicamente per discutere di questioni economiche. Parteciperà il Vaticano, perchè così ha deciso Papa Benedetto XVI. Sappiamo che per l'occasione il Papa tedesco, al secolo Joseph Ratzinger, coglierà l'occasione per presentare un'enciclica a cui ha lavorato negli ultimi due anni. Un'enciclica in cui il Papa tedesco - da sempre interessato a tante cose che, purtroppo, esulano facilmente dagli argomenti che dovrebbero appartenere alla sua sfera di influenza - affronterà temi economici, e in particolare il discorso chiamato globalizzazione. La Chiesa vuole occuparsi della globalizzazione, e trova lo spazio per farlo in questo contesto - quale contesto migliore per mettersi all'attenzione del mondo? - che è il contesto appunto offerto da un incontro di politici che stipulano accordi e strette di mano. Immaginiamo che Benedetto XVI voglia parlare di pace: dirà che la globalizzazione non deve più penalizzare i popoli dei paesi dall'economia arretrata, ma deve vigere un'attenzione rispetto agli indifesi, a coloro che non concorrono per il primato e il controllo delle limitate risorse. Dirà inoltre che la finanza appiattisce le differenze fra nazioni, e tutto soggiace a un dominio di maggiore precarietà. Dirà, forse, che il potere è qualcosa di illusorio, tanto che i padroni delle grandi aziende figurano in realtà come dipendenti di una compagnia fatta di invisibili titoli azionari, in cui gli stessi manager sono dipendenti - pagati poco e superpagati - e sono ugualmente padroni e schiavi dell'entità immateriale di cui raccolgono i risultati. Dirà tante cose, e non dubitiamo del fatto che quel che il Papa tedesco dirà, senz'altro provocherà scandali, polemiche, dibattiti, e così a non finire. Qualcuno dirà: "Il Papa poteva restarsene in San Pietro". Qualcun altro ribatterà: "Il Papa è il Papa, è la guida spirituale dei cristiani e perciò ha il diritto di parlare, di qualunque argomento voglia parlare". I cristiani, ossia il popolo dei lettori di giornali e di spettatori del tiggì, assisteranno a questa débacle, in cui si contesta la posizione scomoda assunta da questo pontefice troppo attivista, che ha detto qualcosa che scontenta tutti - quelli che dovrebbe rappresentare come quelli con cui dovrebbe venire a patti.Insomma: il popolo credente finirà disorientato. Dal momento che il Papa rappresenta la comunità dei credenti - che è sovranazionale, non riguarda il solo popolo di italiani cattolici - egli non potrà dire nulla sulla politica economica di alcun paese. L'Italia è destinata a subire lo shock più grande. Quel che il Papa dirà, non porterà alcun sollievo al tribolato popolo che lo circonda. Magari si esporrà in uno sterile abbraccio per le tribolazioni africane, ma la sua mano non arriverà a lenire le pene degli italiani, sempre più lasciati a sè stessi in questo clima di degrado - che è politico, economico, morale, e insomma di una gravità davvero avvilente. Dal momento che una soluzione a portata di mano non c'è - se non seguire le indicazioni della "decrescita felice" di Serge Latouche - la giusta via per il capo religioso di una delle più longeve istituzioni occidentali non sarebbe stata altro che il sottrarsi alla piazza, al mercato dei destini economico-politici fra paesi che, molto presto, da amici e fratelli potranno rigirarsi l'uno contro l'altro. La situazione attuale non ci permette di vedere alcun idillio a breve distanza. Ogni aiuto che possiamo dare ai più sfortunati che stanno distanti, comporta qualcosa che togliamo a quelli che ci stanno più vicini. L'economia attuale favorisce l'egoismo. Non c'è dubbio. Ma che dire di questo, se non che è una conseguenza inevitabile, prodotta dalle politiche di gente senza coscienza, e che ancora senza coscienza si approssima a rovesciare la frittata? Il Vaticano non può cambiare il mondo, il Papa Ratzinger non vuol prendere in considerazione la possibilità che il suo interventismo - in ogni materia estranea al discorso della fede - sia nocivo allo stesso discorso religioso, nel suo senso profondo; la sua tracotanza (una vera e propria hybris, diremmo, nel senso dei greci) provoca lo sdegno divino, perché tale interventismo ignora le parole di Cristo: "Date a Cesare quel che è di Cesare", che è come dire: "Lasciate agli altri quel che riguarda gli altri". Lo spirito cristiano gli si rivolgerà contro. A subire le conseguenze - a questo punto irrimediabili - sarà la stessa fede che per secoli ha nutrito il popolo al Vaticano più vicino.

Marzio Valdambrini
(tratto da: http://www.shvoong.com/writers/marzio19yahooit/ )

sabato 20 giugno 2009

Cultura di massa: qual'è la sua direzione?

Le riforme volute - e ora in imperturbata fase di applicazione - dal Governo italiano in materia di educazione prefigurano una scuola tecnologica, aggiornata secondo le novità dell'ora, impostata su quelle che si ritengono le esigenze a cui un istituto formativo deve adempiere.
La lavagna informativa sostituisce la lavagna classica, quella della cimosa e dei gessi bianchi. Al lavoro su libri e quaderni, probabilmente si arriverà presto a preferire il computer coi suoi testi multimediali, in cui tutto è a portata di un click. E' inoltre previsto che una materia sarà insegnata in inglese - appunto per rendere i giovani alunni più coesi nel clima della cultura globale, la cultura di massa come pure la cultura "specialistica" che certe istituzioni "globali" spacciano come cultura valida in sede accademica.
Circoscriviamo il nostro intervento a un punto in particolare: la direzione assunta da questi eventi di riforma culturale. Ossia: a cosa queste riforme condurranno.
Per non procedere con considerazioni astratte, avulse dalla realtà che si vive e in cui si cozza il capo giornalmente, vogliamo (e dobbiamo) rifarci a casi concreti, che nella loro esemplarità valgono più di mille ipotesi volatili, impastate dei "se" e dei "ma" che tanto disprezziamo nelle disquisizioni accademiche; abbiamo pur il dovere di essere realistici, ora che siamo arrivati a un certo punto in cui i fatti parlano da sé.
Mi è capitato di udire che un professore universitario abbia consigliato ai suoi studenti di riferirsi, per un approfondimento tematico, a una voce presente su Wikipedia.
Cosa è Wikipedia? E' la più vasta enciclopedia online. Fin qui non c'è nulla di male, anzi: il fatto che offra gratuitamente l'accesso, e che consenta un approfondimento di qualunque argomento di ricerca sembre costituire un servizio di grande utilità. Ma ecco, guardiamo questo servizio più da vicino. Chi sta dietro a Wikipedia, chi contribuisce al suo sviluppo? Sono gli stessi utenti. Ciascuno è libero di aggiungere e modifica le voci presenti - ove queste siano passive di controversia.
E qui esce fuori il problema. Non c'è un criterio "culturale" di selezione del materiale che tale enciclopedia include. Vi si trovano personaggi storici al fianco dei protagonisti della pallavvolo, dei reality shows nonché le pornostar.
Ho un amico che si è candidato all'elezioni comunali in una delle circoscrizioni locali; ebbi l'idea di dedicargli una pagina su Wikipedia. Molto presto un moderatore del sito intervenne, censurando la pagina appena creata. La motivazione che costui mi diede fu che si trattava di contenuto "non contestualizzato". Cercai più dettagli, perchè la spiegazione era piuttosto lacunosa. Se vi sono pagine dedicate a chi è andato in televisione per dire una scemenza, a chi ha vinto una medaglia in un torneo di sci che nessuno ricorda, a un professore universitario la cui pagina è scritta dai suoi assistenti un po' ruffiani, è lecito chiedersi: chi lo crea, il contesto? Chi decide cosa è un contesto? Nessun moderatore di questa enciclopedia online può darci una risposta soddisfacente.
Possiamo abbozzare noi una risposta.
Il contesto si crea da sé.
Il contesto che fa da filtro alla cultura non è un elemento culturale. Lo può diventare, ma di per sé, il contesto è altro dalla cultura. Il contesto è originato da un interesse pubblico, soprattutto nei casi in cui il contesto è nuovo e si propone in contrasto o frattura con forme di sapere già istituzionali, in cui il sapere è sottoposto al vaglio di forme di controllo, dove anche al giudizio di un'autorità intellettuale.
Se non è cultura, il neonato contesto è certamente natura.
L'interesse lo investe di un'aura di originalità, e con ciò prende forma e - grazie all'investitura che gli offre un'enciclopedia online particolarmente visitata al punto di essere un riferimento persino in sede accademica - si istituzionalizza.
Così la cultura cresce, e pure aumentano le nuove pagine che utenti volenterosi scrivono su Wikipedia. Domandiamoci: ma la cultura cresce per davvero, o sembra che cresca soltanto perchè aumentano le pagine di Wikipedia? Il tema riguarda il solito punto, e cioè il filtro.
La cultura di massa non ha filtro.
La massa stessa è il filtro. Dal momento che la cultura di massa non riceve il beneplacito di un'autorità intellettuale che dica "questo va bene" o "questa è merda", la cultura di massa cresce e si sviluppa senza alcun controllo volontario. Non ci sono dei canoni morali ammessi, che possano
vietare o sanzionare un prodotto culturale immesso sul mercato e che ottiene un successo colossale, seppure si tratti di una forma lesiva per l'educazione giovanile e che ingenera comportamenti nichilisti e devianti.
La massa è numero, cioè quantità. La massa perciò non può concepire un'etica, se appunto si conta come massa. Il "pubblico", che è frutto degli strumenti di comunicazione - appunto della comunicazione mediatica, che è sempre di massa - può apprezzare o decidere di cambiare canale, ma non può irrompere nella trasmissione ed esprimere il suo scontento.
Dell'opinione della massa, gli esperti di mercato tengono conto semplicemente sulla base di un fatto elementare: che la massa compri il prodotto oppure no. E questo, ancora una volta, si misura coi numeri. La massa è quantità, e ogni attività svolta dalla massa si traduce ugualmente in quantità. Così anche il pensiero della massa, prende forma in quantità.
E' chiaro che l'etica e la morale siano avulsi dal quantitativo: questi si esprimono come valori qualitativi, e perciò gli esperti di mercato non hanno proprio da tenerne conto. E con essi, anche i "produttori" di cultura (intendendo gli industriali della cultura di massa) non hanno da preoccuparsene: a questi interessa vendere il prodotto, perché la cultura che non è merce non è neppure cultura di massa.
Non vogliamo incartarci in noiose e circolari speculazioni di eco marxista, da cui non usciremmo fuori e finiremmo in uno dei tanti errori in cui sono cascati certi "filosofi" degli ultimi cinquant'anni. Limitiamoci soltanto a notare come, dopo che agli artisti si sono sostituiti gli operai della merce culturale, e dopo che ai fruitori di cultura si è sostituita la massa come destinatario, abbiamo infine questa sostituzione: alle figure che potevano esercitare funzione di autorità intellettuale (nella forma di critici che rimandano a canoni culturali classici) si sostituisce un'altra autorità intellettuale, che però è del tutto impersonale ed è in relazione stretta con lo stesso pubblico destinatario della merce. Se le prime due sostituzioni che abbiamo menzionato si sono avute pressoché contemporaneamente, perché l'una implicava l'altra, quest'ultima innovazione del filtro è quel che perfeziona il circolo, che lo rende dunque più fluido.
Ma continuiamo adesso col discorso di Wikipedia, che come abbiamo scritto in altra sede, corrisponde esemplarmente alla forma più comprensiva del processo di democratizzazione della cultura.

(CONTINUIAMO IN ALTRO POST)

domenica 17 maggio 2009

Il kamasutra per cattolici è il trionfo dei laici?

La laicizzazione delle istituzioni è un processo che è ormai in fase di conclusione. Conclusione, cioè compimento del suo fine. Tutt’oggi di istituzioni non laiche ce ne sono rimaste davvero poche, e nel giro di poco saranno scomparse pure le briciole. Un monaco francescano polacco pubblica un un kamasutra per coppie cattoliche e subito è boom di vendite. Nessuno finora ha levato la voce sul degrado del credo cattolico: alla secolarizzazione dell’istituto segue un’avvilente mercificazione della dottrina, che pure è tradita e offesa. Il blasfemo è, oggi, solo e nient’altro che una categoria estetica.
Ma guardiamo da più lontano, quale spettacolo ci troveremo davanti un giorno imminente, quello in cui la laicizzazione sarà arrivata in fondo. In fondo, al fondo di quel che fa dell’uomo non tanto un mammifero, quanto un essere sacro e inviolabile, un anima dentro un corpo e un corpo che reclama diritti e valori. Gli opinionisti dell’ideologia laica sostengono che esiste un’etica separata dalla religione; ci sarebbe un’etica laica su cui i rapporti tra uomini troverebbero regolazione entro la società, e dunque un’etica sociale che, avulsa dai precetti cristiani e dai loro residui, consentirebbe di sopravvivere alla morte di Dio. Se Dio è morto, l’uomo oggi è invece vivo e vegeto suo malgrado. Il kamasutra per cattolici testimonia la sua vitalità – e pure il bisogno di scopare.
Ma a che punto un orientamento smette di essere un orientamento, e diventa invece una prescrizione e poi un obbligo? Perché non si pone la domanda, quel prete ignobile che scrive il kamasutra?
Non è un salto avventato, il passare da questo fatto alla situazione dei partiti nostrani. Osserviamo i partiti come navi nella tempesta, mossi tra incertezze d’identità culturale e le direttive più o meno autoritarie (almeno in un caso, palese) dell’uno che vi sta alla testa. Laicizzazione dei partiti: si traduce in etica utilitarista del fine da raggiungere, costi quel costi. Se non è del tutto evidente, presto lo sarà di più. La presa di posizione che i partiti mostrano, su ogni faccenda che sia di matrice culturale e non attinente alla retorica o ai fini della politica di partito, è inesistente.
La cultura non serve; non se ne comprende l’utilità, a meno che non divenga strumento per affrontare un avversario. Eppure la cultura va difesa, soprattutto oggi che è in pericolo. L’intera cultura italiana è radicata nel suo spirito religioso.
Se scompare il senso e il significato della cultura, non è prossima la fine della stessa. Magari ci rimarrà, ma in forma di cartoline e souvenirs per turisti. Vivremo come turisti, a Roma come a Firenze: guarderemo la realtà che ci circonda con gli occhi del turista, pensando che in ogni tempo sia sufficiente il talento di un uomo per costruire qualcosa.
Schiacciati i secoli su un muro di cemento, l’Italia sarà quotata in borsa e avrà i suoi managers educati secondo la razionalità dell’ultim’ora, figlia del positivismo più oscurantista. A quel punto il futuro avrà la stessa profondità del passato: profonda eppure piatta, un’ingegnosa cartolina per il turista laico.

venerdì 1 maggio 2009

Sex and the city. Riflessioni sui motivi del suo successo

Sex and the city è il romanzo più popolare dell'ultimo ventennio. Il motivo del suo successo non è spiegabile in poche righe; servirebbe un'analisi accurata, corredata da una ricostruzione delle dinamiche culturali, dunque storiche, che hanno reso "interessante" il tema principale dell'opera della Bushnell. I temi spolverati dall'autrice non sono belli o piacevoli in sé, quanto risultano invece interessanti, suscitano cioé un interesse. E' interessante perché tratta di qualcosa che per lunghissimo tempo è stato tabù.
La scrittrice scardina una serie di meccanismi del pensiero che fino a poco tempo prima hanno fatto parte dei pensieri sopiti e inconfessati - in gran parte dei casi, inconfessati perché neppure pensati o avvertiti - della massa. La massa, nel linguaggio dei media, è il pubblico.
Così il pubblico viene a sapere di cose nuove, che scopre all'improvviso e si meraviglia di tanta creatività, di tanta originalità espressiva, di tante cose che prima erano contrassegnate dal sigillo del volgare.
Anche il volgare costituisce una categoria estetica, che pure è una categoria etica. Questa categoria difficilmente definibile, che si è impressa nell'immaginario collettivo nell'arco dei secoli, oggi è messa in discussione e proprio la sua discussione dona tutto l'interesse all'opera della Bushnell, che diviene così un'opera di grande interesse popolare. L'interesse è alimentato dalla moda, che segue una propria dialettica di vita e morte, di sviluppo ed estinzione. Cavalcando la moda, dunque l'interesse per qualcosa che è nuovo, un romanzo (come anche un film, qualunque cosa che entri nel mercato) può acquisire interesse e conquistare le masse. E' raro che le masse si interroghino sull'origine della moda e dell'interesse a questa connesso. Per chi segue le mode e le tendenze che rapidamente decollano e decadono, è noto che l'interesse e il successo hanno poco a che fare con ciò che è "bello" in sé. Come i canoni di bellezza - in cui alle donne cicciose fanno seguito le modelle anoressiche - anche i presupposti del gusto estetico hanno poco di estetico. Le leggi della bellezza - per così dire - non sono belle di per sé, e neppure hanno da esserlo. Il fondamento del gusto non è stabilito dal gusto stesso.
Ma guardiamo ora il libro che tanto successo ha raccolto, e che continua a raccogliere, grazie anche alla sua trasposizione visuale sul piccolo e grande schermo.
Si tratta delle storie di alcune donne newyorkesi, dedite a tutto fuorché a problemi seri o a situazioni in cui la maturità di un'adulto sia chiamata in causa. Sono tutte sui quarant'anni, ma vivono alla maniera di adolescenti, e proprio di carattere adolescenziale sono i pensieri, le preoccupazioni, le situazioni che vivono. Il loro stesso linguaggio è adolescenziale. L'argomento che domina pensieri, preoccupazioni, situazioni e linguaggio è - manco a dirlo, visto che rientra nel titolo - il sesso.
Il prodotto ha successo: il pubblico lo guarda e ammira le protagoniste, con cui probabilmente le donne di quell'età si identificano. Le donne vedono forse delle donne emancipate, in questa rappresentazione di vita mondana. Tolte dalla cornice della realtà scenica, le protagoniste sono in realtà delle figure di carta, che non hanno nulla a che fare coi problemi della realtà, così come manca loro una vera sensibilità umana.
Dovremmo domandarci se l'opera della Bushnell sia una rappresentazione coerente della vita osservata dalla scrittrice americana - o sia invece una caricaturalizzazione della stessa. Nel caso della seconda ipotesi, si ottiene oggi la conseguenza dell'identificazione del pubblico con le figure e le vicende proposte dall'autrice. Insomma, queste donne sono percepite come modelli, sicché tanti ritengono ammirevole ed esemplare il lifestyle di queste donne, vacue e superficiali in un mondo altrettanto vacuo e superficiale. Perciò la realtà, che è ignara della propria realtà, decide di conformarsi al modello della finzione, e dunque si è ha finzione che diventa realtà. Ma questa è la seconda ipotesi: la prima, lo ricordiamo, è che la rappresentazione offerta dalla Bushnell corrisponda fedelmente alla realtà newyorkese (o comunque a una realtà indagata dalla scrittrice).
Tante donne, oggi, vedono in Carrie Bradshaw, in Samantha Jones, delle eroine e delle figure da imitare.
Queste figure sono interessanti, perché parlano un linguaggio interessante e fanno cose interessanti. La massa ne è attratta, perché si tratta di un prodotto commerciale che usa in maniera vincente le strategie di marketing. Il meccanismo psicologico di identificazione, che in tal caso è un fenomeno collettivo, grazie alla diffusione del prodotto su larga scala e all'altrettanto massificata omologazione culturale oggi in corso, qui è la ragione del successo clamoroso del prodotto.
Dovremmo chiederci, in merito a questo riuscito processo di identificazione, se la massa di donne quarantenni si identifichi con tali personaggi perché vorrebbero essere come loro o perchè, invece, si sentono realmente come loro. Il peggiore dei casi è il secondo.
Infatti, nel caso in cui il pubblico di donne si sentisse come le figure della Bushnell, dovremmo pensare che il pubblico è composto di persone piuttosto superficiali, a dir poco leggiere, che rifiutano le responsabilità e vivono bene senza l'idea di quali siano le prerogative di una vita da adulto. (Ma qui ci dovremmo soffermare sulle trasformazioni di significato del termine "adulto", verificate a partire dalle controculture fino ad oggi). Nel primo caso, invece, ossia nel caso in cui il pubblico si identifichi con le creature di Sex and the city perché vorrebbe assomigliare a loro, la spiegazionè è più complessa e trova il fondamento nella dialettica dell'interessante, sulla quale qui non possiamo soffermarci oltre, per ragioni di spazio.

Marzio Valdambrini - marzio19@yahoo.it

giovedì 30 aprile 2009

Love is a game. Or maybe not?

Turning on the tv, our attention is caught by scenes or discussions which have love as central object. In no age like this one, love has taken so much attention, till becoming an important product of interest for the mass culture and its marketing.
Everybody has some opinion to express: the expert opinion, normally, is offered by some psychologist or some sociologist. In the most of the cases, we hear about some boring and unpleasant truth. We know that there's something true in those speeches, but it sounds boring and unpleasant because we already know what they are talking about, and it's something that doesn't comfort us. For some people, these interpretatins are helpful for the self understanding. But there's also a negative effect, as we try to show here briefly. These talk-show dialogues, these books and these movies, with the visions of human things which they propose, get the effect to replace our constructive thinking with their own formal and interrogative skepticism. We cannot be skeptic towards every fact of the life and human existence. At least, we have to believe in something. But talk-shows thinkers and contemporary opinion-leaders want to convince us that the feelings are the result of a game, of a system of interactions. Romeo would love Juliet only because he meets her when he's horny and there's no other girl around: this would be an explication that our contemporary observers, "well educated" by tv and post-modern society theorists could think. It's a very arbitrary opinion, but the right to be arbitrary is substained by the latest cultural relativism. In the relativism climax, the winner position is alway the materialist one. Why? That's simple. Because a materialist interpretation doesn't need to search for an explication: everything is just confirmed simply with his evidence. But is it really evidence, this one? Let's look at Romeo and Juliet story. Reading the story, we notice that Romeo doesn't meet other girls. He cannot fall in love for other girls, because he doesn't see them or doesn't meet them. Some contemporary interpreter could argue that Romeo must fall in love with her, because there are no other girls to fall in love with. This would be a necessity, like a natural phenomenon.But in this case, we wouldn't be talking about "love" anymore. We would be talking about "necessity", and so about "interest", and other connected things. This is one of the extreme derive of the contemporary and post-modern thought, which is nothing else than an exaggeration, resulted by carrying the modern thought individualism and his method of causal imputation to the extreme consequence. We cannot reduce the reality and the essence of our lives to a "game" of social interactions. It can't be so: if it would be, we should consider our same lives as natural objects, located in a context of rigid formal laws. A context so ruled, by formal laws which just treat the individualities for their being an empty "something" and not a specific "something", wouldn't be a human context. No human context would correspond to this scenario, where the human relations are explained by strictly causal relations.This would be a natural context, where the feelings are totally replaced by the physical interests - and nothing else.So we must refuse all these contemporary and astonishing interpretations about love, feelings and other old facts which compose the constellation of meanings and paradigmatic experiences. These old facts with their old interpretations offer the sense and the measure of the human existence. Why we should see something of different in them, if we have survived until today without the need to kill each other for affirmating our right to structure the own existence in some social and peaceful way? New interpretations, driven by post-modern ideas, are deeply nihilistic, they deny any transcendental factor which could legitimate the human - and social - experience in a higher sense. Denying the transcendental dimension of love and feelings, pulls to deny also the necessity of a society. Why I should do something for the society, if the society cannot do anything for me? This is a quest that no contemporary materialist and post-modern theorist can face.

The topic would be long and would need to be properly articulated. We plan to return on this subject in other moment.

mercoledì 29 aprile 2009

Wittgenstein, Della certezza: considerazioni sull'ignoranza degli scienziati

Nel corso della sua vita, Ludwig Wittgenstein ha pubblicato ben poco. Uomo eccentrico, libero pensatore, esule in Inghilterra durante la seconda guerra mondiale, e infine spirito in cerca di conferme sulla realtà. Si è detto di tutto, e ancora continua a dirsi, di quest'autore che ha influenzato e ancora influenza generazioni di studiosi di filosofia e scienze umane. Ispiratore del neopositivismo viennese, egli rifiutò il carattere dogmatico che questo movimento venne assumendo, così come ostile era nei confronti di ogni dogma. Eppure la cognizione della realtà gli pareva non poter prescindere da un residuo di esperienze che non sono apprese dai cinque sensi, che sottostanno alla stessa comprensione, alla stessa facoltà che rende l'uomo un essere capace di pensare ed elaborare opinioni.Dove nasce il senso comune, e come si sviluppa? Quali sono i suoi limiti? Questi sono interrogativi che compaiono in questo libro, pubblicato postumo in Inghilterra col titolo On certainty, ossia Sulla certezza.Il titolo più appropriato, ci suggerisce uno studioso italiano del filosofo austriaco, sarebbe invece Sul credere. Credere ed esser certi di qualcosa sono, in definitiva, un oggetto costante della riflessione wittgensteiniana. Il materiale qui raccolto non fu elaborato in forma di libro dal suo autore; il libro esce grazie al lavoro dei suoi devoti esecutori testamentari, che hanno raccolto annotazioni dal materiale informe ed eterogeneo del poco metodico filosofo. Poco metodico, e forse per questo, Wittgenstein era tanto attratto dalla questione del metodo. Ma l'importanza del filosofo non sta nelle osservazioni in sé, quanto nella pertinenza che rende il suo pensiero così sintomatico di un'epoca, di un periodo storico, dell'età contemporanea che è così segnata dal dominio della scienza su ogni settore della vita, e dunque della conoscienza, col risultato che ottiene istituendo l'autorità del calcolo e della misura sulla stessa conoscenza, sul conoscere umano. La scienza e il senso comune: si tratta di un binomio stranamente assortito, in cui le due parti sono apparentemente estranee, ma che viste da vicino sembrano nutrirsi l'una dell'altra. Nelle pagine di questo libro vediamo come l'autore cerchi di scindere le due parti, non per dividerle ma per cogliere l'identità dell'una e l'identità dell'altra. Aldo G. Gargani, nell'introduzione italiana all'opera, esordisce così dicendo: "Sembra giusto ritenere che la scienza, soprattutto a partire dal secolo XVII, con la sua strutturazione meccanicistica, abbia scisso il sapere dal senso comune. La tesi di Galilei, Descartes, Hobbes e di altri sulla soggettività delle qualità sensibili ha espropriato dall'universo fisico oggettivo sapori, odori, colori (e insieme anche valori etici ed estetici) con i quali il senso comune produce la sua percezione del mondo fisico. La scienza avrebbe così svalutato i canali ordinari attraverso i quali il senso comune stabilisce il proprio contatto con gli oggetti fisici. Con l'introduzione, inoltre, di tecniche sempre più raffinate e invadenti di formalizzazione matematica, essa avrebbe sottratto agli uomini comuni, al pensiero popolare la visibilità della natura". Siamo d'accordissimo, ma vorremmo aggiungere che, a un certo punto, la visibilità della natura si sottrae persino agli uomini di scienza, al cosiddetto "clero" della nuova religione del mondo moderno, ossia la scienza. Wittgenstein non parla in questi termini, siamo noi a permetterci una piccola divagazione personale. Lo scienziato, lo specialista, di fronte a sé ha il dato che studia e analizza, ma basta questo a rendergli "visibile" la natura? Siamo davvero sicuri, ci domandiamo, che il dominio dei mezzi tecnici più sofisticati possa consentire agli uomini tecnicamente competenti di dominare quel che hanno di fronte - e anche di comprenderlo? O forse accade il contrario: sono i mezzi di osservazione adottati, che limitano l'osservazione dell'uomo, e dunque decidono della visibilità di ciò che si osserva? Noi crediamo che sia così, che la certezza dei risultati d'indagine sia pur sempre condizionata dai metodi e gli strumenti impiegati - e questi sono sempre e inevitabilmente limitati - e perciò la scienza non autorizza l'uomo ad esprimersi in termini che superino i confini dello sperimentabile e del misurabile. Si tratta qui dell'antitesi fra misura quantitativa e valore qualitativo: non si può esprimersi sul secondo facendo ricorso alla prima. "Non soltanto so che la Terra esisteva già molto tempo prima che io nascessi, ma so anche che è un grosso corpo; che questo è stato accertato, che io e gli altri uomini abbiamo molti antenati, che ci sono libri che trattano di tutte queste cose, che questi libri non mentono, ecc. ecc. ecc. E tutto questo lo so? Lo credo. Questo corpo di conoscenze mi è stato tramandato, e non ho nessuna ragione per dubitarne; anzi, ho ogni sorta di conferme. E perchè non devo dire che tutte queste cose le so? Non si dice forse proprio questo? Ma tutto questo non lo so, o lo credo, soltanto io: lo sanno e lo credono anche gli altri. O piuttosto io credo che lo credano" (288). Questo è il punto di vista dell'uomo comune, ma l'uomo di scienza non è lontano dal fondare il suo conoscere su simili princìpi. Ossia: l'uomo di scienza crede a quel che gli suggerisce il termometro, che misura l'innalzarsi della temperatura in concomitanza dell'ebollizione dell'acqua, ma non può sospettare che il liquido cambi, e inizi ad ebollire in concomitanza di temperature diverse. Qui la realtà si rende conoscibile allo scienziato attraverso le certezze che il termometro (come qualunque altro mezzo di misurazione o strumento tecnico) gli offre, ma lo scienziato non può affatto esser certo che il suo fondamento di certezza sia davvero certo. Ossia, non può sapere se il termometro lo inganna, o è accaduto qualcosa che rende inesatta la sua misurazione. Si tratta pur sempre di una fede: lo scienziato ha fede nei suoi mezzi di misurazione, e su questi fonda la certezza e la propria cognizione della realtà. La certezza, come ogni credenza, si trova in artificioso equilibrio, sul baratro di tutto quel che supera il finito ambito del verificabile.