sabato 27 giugno 2009

Declino della Ragion di Stato. Un'interpretazione [1]

Fra le conseguenze della globalizzazione, oltre a quelle di rilievo economico e sociale, vanno tenute di conto le conseguenze sul piano politico-culturale. Non ci riferiamo alle conseguenze politiche, che sono un'estensione sul piano gestionale delle nuove condizioni economiche. Ci riferiamo qui, in particolare, alle conseguenze della cosiddetta "cultura politica", la quale è un tema ampio che ogni nazione si porta dietro, come la sua memoria storica che ne connota imprescindibilmente l'identità.
L'apertura delle frontiere, all'affratellamento di tutte le genti del globo, l'estensione a ogni individuo dei diritti umani - che vanno visti soprattutto come il trait d'union dell'egualitarismo che accomuna tutti gli uomini, rendendoli simili in quanto uguali (si badi bene: gli uomini sono simili perchè sono resi uguali dagli stessi diritti che, anzitutto, sono riconosciuti come propri di un ente astratto quale "l'uomo", categoria senz'altro più volatile dei singoli uomini che si incontrano in ogni spazio sociale della vita delle città e delle realtà più diverse) comporta delle conseguenze sul piano culturale-nazionale a cui nessuno sa trovare rimedio.
Non soltanto il rimedio non lo si trova, ma neppure lo si cerca. Non lo si cerca perchè non se ne vede la problematicità.
L'estensione delle norme più democratiche, dei diritti umani anzitutto, di tutte le libertà che sulla carta sono garantite agli abitanti delle democrazie liberali, provoca attriti e conseguenze critiche nei paesi che per ultimi ricevono l'ondata della globalizzazione, o perlomeno i paesi che solo in epoca recente hanno ricevuto il fenomeno-globalizzazione come mezzo di scardinamento di strutture desuete e collassate. Questi paesi, colonizzati dal nuovo internazionalismo economico, devono scendere a compromesso con l'internazionalismo culturale, dunque il liberalismo democratico che si impone anzitutto in una forma di assistenzialismo mondiale millantato perlopiù a parole. Ma chi si vede arricchito dalla nuova economia mondiale non può certo rifiutarsi di convertirsi alla nuova cultura e ai nuovi culti; non può neppure ricercare un motivo che possa usare per opporsi al cambiamento che porta benessere.
Il benessere è la promessa delle democrazie liberali, ma prima di tutto è (o forse era, e ora lo è un po' meno) la promessa della globalizzazione.
Perciò in Russia accettano volentieri le critiche dell'Occidente nei confronti dei suoi vecchi miti politici, e così fanno nei paesi della ex Jugoslavia titina, e soprattutto lo fanno i paesi dell'Europa centrale che sono stati sotto l'influenza sovietica.
Ricordiamo il romanzo 1984 di Orwell, in cui il continuo succedersi di guerre tra nazioni sempre diversamente assortite in coalizioni porta alla continua riscrittura della storia. La storia è riscritta a seconda dell'esito di ogni guerra, e così ogni volta si ha una storia diversa, sempre nuova, che impone di dimenticare il passato per accettarne uno nuovo. Si badi bene: si rinnega il passato che vigeva fino a quel punto, ma non per favorire il futuro o il presente. Si rinnega il passato soltanto per accettarne un altro, un nuovo passato.
Così la gente si disorienta, la comunità si frammenta, si perde il senso della cultura. Queste sono le conseguenze di tale rifiuto; ma l'accettazione di una nuova interpretazione di tutto, che è data dalla nuova riscrittura della storia, consente di ricomporre la comunità, di dare nuova coscienza alla gente, e pure di dare un nuovo senso alla cultura - che pure è inevitabilmente rinnovata.
Riscrivere la storia è un'operazione che comporta queste fasi: una rottura e una ricostruzione.
Il legame col passato è il problema che assilla chi si guarda alle spalle.
La soluzione che certe situazioni suggeriscono è: non guardarsi alle spalle.
La stessa politica culturale della globalizzazione invita a non guardarsi alle spalle.
Perchè? Perchè guardarsi indietro comporta l'individuare le differenze. Comporta il riscoprire i motivi che in tempi più o meno lontani hanno causato un attrito, che si è poi risolto in maniere avulse della retorica del liberalismo democratico.

Vorremmo in questa sede analizzare la crisi in cui è caduto un concetto piuttosto importante della storia delle dottrine politiche europee. Trattiamo della "ragion di stato", che ebbe in Machiavelli il suo primo interprete e il più ruvido codificatore.
Secondo l'autore fiorentino, la ragion di stato era un concetto già presente, seppure non presente alla coscienza degli uomini politici del tempo, nel Rinascimento italiano. Il concetto entrerà a far parte della coscienza degli uomini politici della successiva modernità, grazie anche alla fama che l'opera machiavellica godrà. Si tratta di una vera e propria forma di "ragione"; non di ragione nel senso di "ragione in sé", ma di razionalità finalistica in senso weberiano. Diremmo, kantianamente, che la ragione in sé è inconoscibile, e perciò dobbiamo accontentarci di conoscere la ragione fenomenica, che è pur sempre una ragione orientata verso qualcosa.
Vale la stessa riflessione svolta da Max Weber: la razionalità può essere formale oppure finalistica, ma a fronte della seconda, la prima si rivela irrazionale. Lo stesso Weber vide molto bene qual'era il destino della razionalità, e pure qual'era il destino della ragione. Tale destino è il progressivo svuotamento del contenuto interno alla forma. Giacché la ragione formale senza contenuto è vuota, la sua forma deve soggiacere sempre al fine che la plasma. Così in ogni ambito in cui la si adoperi: in ogni lavoro, come nella manutenzione di una macchina, in una gestione patrimoniale, o in una politica bellica nell'occasione di una guerra.
Machiavelli presentava una società italiana in cui la politica di tanti piccoli stati e principati era intimamente informata di una simile idea di ragione finalistica. Il fine, appunto, era la politica dello stato in lotta con altri stati, lotta che richiedeva sempre nuove alleanze e nuove aggressioni.
La ragion di stato, notiamo, era una conseguenza del fatto che la carta geografica era frammentata, e tra le parti non c'era possibilità di una conciliazione ultima.
Per comprendere la problematicità assunta dal concetto di ragion di stato nella seguente età moderna - in cui la frammentarietà diminuisce e nuove alleanze tendono a ricomporre gli scenari europei in modo pià coeso e armonico - dovremmo riferirci alle analisi effettuate dai classici Meinecke, Weber, Sombart, e infine Schmitt.

[continuiamo in altra sede]

Nessun commento:

Posta un commento