giovedì 30 aprile 2009

Love is a game. Or maybe not?

Turning on the tv, our attention is caught by scenes or discussions which have love as central object. In no age like this one, love has taken so much attention, till becoming an important product of interest for the mass culture and its marketing.
Everybody has some opinion to express: the expert opinion, normally, is offered by some psychologist or some sociologist. In the most of the cases, we hear about some boring and unpleasant truth. We know that there's something true in those speeches, but it sounds boring and unpleasant because we already know what they are talking about, and it's something that doesn't comfort us. For some people, these interpretatins are helpful for the self understanding. But there's also a negative effect, as we try to show here briefly. These talk-show dialogues, these books and these movies, with the visions of human things which they propose, get the effect to replace our constructive thinking with their own formal and interrogative skepticism. We cannot be skeptic towards every fact of the life and human existence. At least, we have to believe in something. But talk-shows thinkers and contemporary opinion-leaders want to convince us that the feelings are the result of a game, of a system of interactions. Romeo would love Juliet only because he meets her when he's horny and there's no other girl around: this would be an explication that our contemporary observers, "well educated" by tv and post-modern society theorists could think. It's a very arbitrary opinion, but the right to be arbitrary is substained by the latest cultural relativism. In the relativism climax, the winner position is alway the materialist one. Why? That's simple. Because a materialist interpretation doesn't need to search for an explication: everything is just confirmed simply with his evidence. But is it really evidence, this one? Let's look at Romeo and Juliet story. Reading the story, we notice that Romeo doesn't meet other girls. He cannot fall in love for other girls, because he doesn't see them or doesn't meet them. Some contemporary interpreter could argue that Romeo must fall in love with her, because there are no other girls to fall in love with. This would be a necessity, like a natural phenomenon.But in this case, we wouldn't be talking about "love" anymore. We would be talking about "necessity", and so about "interest", and other connected things. This is one of the extreme derive of the contemporary and post-modern thought, which is nothing else than an exaggeration, resulted by carrying the modern thought individualism and his method of causal imputation to the extreme consequence. We cannot reduce the reality and the essence of our lives to a "game" of social interactions. It can't be so: if it would be, we should consider our same lives as natural objects, located in a context of rigid formal laws. A context so ruled, by formal laws which just treat the individualities for their being an empty "something" and not a specific "something", wouldn't be a human context. No human context would correspond to this scenario, where the human relations are explained by strictly causal relations.This would be a natural context, where the feelings are totally replaced by the physical interests - and nothing else.So we must refuse all these contemporary and astonishing interpretations about love, feelings and other old facts which compose the constellation of meanings and paradigmatic experiences. These old facts with their old interpretations offer the sense and the measure of the human existence. Why we should see something of different in them, if we have survived until today without the need to kill each other for affirmating our right to structure the own existence in some social and peaceful way? New interpretations, driven by post-modern ideas, are deeply nihilistic, they deny any transcendental factor which could legitimate the human - and social - experience in a higher sense. Denying the transcendental dimension of love and feelings, pulls to deny also the necessity of a society. Why I should do something for the society, if the society cannot do anything for me? This is a quest that no contemporary materialist and post-modern theorist can face.

The topic would be long and would need to be properly articulated. We plan to return on this subject in other moment.

mercoledì 29 aprile 2009

Wittgenstein, Della certezza: considerazioni sull'ignoranza degli scienziati

Nel corso della sua vita, Ludwig Wittgenstein ha pubblicato ben poco. Uomo eccentrico, libero pensatore, esule in Inghilterra durante la seconda guerra mondiale, e infine spirito in cerca di conferme sulla realtà. Si è detto di tutto, e ancora continua a dirsi, di quest'autore che ha influenzato e ancora influenza generazioni di studiosi di filosofia e scienze umane. Ispiratore del neopositivismo viennese, egli rifiutò il carattere dogmatico che questo movimento venne assumendo, così come ostile era nei confronti di ogni dogma. Eppure la cognizione della realtà gli pareva non poter prescindere da un residuo di esperienze che non sono apprese dai cinque sensi, che sottostanno alla stessa comprensione, alla stessa facoltà che rende l'uomo un essere capace di pensare ed elaborare opinioni.Dove nasce il senso comune, e come si sviluppa? Quali sono i suoi limiti? Questi sono interrogativi che compaiono in questo libro, pubblicato postumo in Inghilterra col titolo On certainty, ossia Sulla certezza.Il titolo più appropriato, ci suggerisce uno studioso italiano del filosofo austriaco, sarebbe invece Sul credere. Credere ed esser certi di qualcosa sono, in definitiva, un oggetto costante della riflessione wittgensteiniana. Il materiale qui raccolto non fu elaborato in forma di libro dal suo autore; il libro esce grazie al lavoro dei suoi devoti esecutori testamentari, che hanno raccolto annotazioni dal materiale informe ed eterogeneo del poco metodico filosofo. Poco metodico, e forse per questo, Wittgenstein era tanto attratto dalla questione del metodo. Ma l'importanza del filosofo non sta nelle osservazioni in sé, quanto nella pertinenza che rende il suo pensiero così sintomatico di un'epoca, di un periodo storico, dell'età contemporanea che è così segnata dal dominio della scienza su ogni settore della vita, e dunque della conoscienza, col risultato che ottiene istituendo l'autorità del calcolo e della misura sulla stessa conoscenza, sul conoscere umano. La scienza e il senso comune: si tratta di un binomio stranamente assortito, in cui le due parti sono apparentemente estranee, ma che viste da vicino sembrano nutrirsi l'una dell'altra. Nelle pagine di questo libro vediamo come l'autore cerchi di scindere le due parti, non per dividerle ma per cogliere l'identità dell'una e l'identità dell'altra. Aldo G. Gargani, nell'introduzione italiana all'opera, esordisce così dicendo: "Sembra giusto ritenere che la scienza, soprattutto a partire dal secolo XVII, con la sua strutturazione meccanicistica, abbia scisso il sapere dal senso comune. La tesi di Galilei, Descartes, Hobbes e di altri sulla soggettività delle qualità sensibili ha espropriato dall'universo fisico oggettivo sapori, odori, colori (e insieme anche valori etici ed estetici) con i quali il senso comune produce la sua percezione del mondo fisico. La scienza avrebbe così svalutato i canali ordinari attraverso i quali il senso comune stabilisce il proprio contatto con gli oggetti fisici. Con l'introduzione, inoltre, di tecniche sempre più raffinate e invadenti di formalizzazione matematica, essa avrebbe sottratto agli uomini comuni, al pensiero popolare la visibilità della natura". Siamo d'accordissimo, ma vorremmo aggiungere che, a un certo punto, la visibilità della natura si sottrae persino agli uomini di scienza, al cosiddetto "clero" della nuova religione del mondo moderno, ossia la scienza. Wittgenstein non parla in questi termini, siamo noi a permetterci una piccola divagazione personale. Lo scienziato, lo specialista, di fronte a sé ha il dato che studia e analizza, ma basta questo a rendergli "visibile" la natura? Siamo davvero sicuri, ci domandiamo, che il dominio dei mezzi tecnici più sofisticati possa consentire agli uomini tecnicamente competenti di dominare quel che hanno di fronte - e anche di comprenderlo? O forse accade il contrario: sono i mezzi di osservazione adottati, che limitano l'osservazione dell'uomo, e dunque decidono della visibilità di ciò che si osserva? Noi crediamo che sia così, che la certezza dei risultati d'indagine sia pur sempre condizionata dai metodi e gli strumenti impiegati - e questi sono sempre e inevitabilmente limitati - e perciò la scienza non autorizza l'uomo ad esprimersi in termini che superino i confini dello sperimentabile e del misurabile. Si tratta qui dell'antitesi fra misura quantitativa e valore qualitativo: non si può esprimersi sul secondo facendo ricorso alla prima. "Non soltanto so che la Terra esisteva già molto tempo prima che io nascessi, ma so anche che è un grosso corpo; che questo è stato accertato, che io e gli altri uomini abbiamo molti antenati, che ci sono libri che trattano di tutte queste cose, che questi libri non mentono, ecc. ecc. ecc. E tutto questo lo so? Lo credo. Questo corpo di conoscenze mi è stato tramandato, e non ho nessuna ragione per dubitarne; anzi, ho ogni sorta di conferme. E perchè non devo dire che tutte queste cose le so? Non si dice forse proprio questo? Ma tutto questo non lo so, o lo credo, soltanto io: lo sanno e lo credono anche gli altri. O piuttosto io credo che lo credano" (288). Questo è il punto di vista dell'uomo comune, ma l'uomo di scienza non è lontano dal fondare il suo conoscere su simili princìpi. Ossia: l'uomo di scienza crede a quel che gli suggerisce il termometro, che misura l'innalzarsi della temperatura in concomitanza dell'ebollizione dell'acqua, ma non può sospettare che il liquido cambi, e inizi ad ebollire in concomitanza di temperature diverse. Qui la realtà si rende conoscibile allo scienziato attraverso le certezze che il termometro (come qualunque altro mezzo di misurazione o strumento tecnico) gli offre, ma lo scienziato non può affatto esser certo che il suo fondamento di certezza sia davvero certo. Ossia, non può sapere se il termometro lo inganna, o è accaduto qualcosa che rende inesatta la sua misurazione. Si tratta pur sempre di una fede: lo scienziato ha fede nei suoi mezzi di misurazione, e su questi fonda la certezza e la propria cognizione della realtà. La certezza, come ogni credenza, si trova in artificioso equilibrio, sul baratro di tutto quel che supera il finito ambito del verificabile.

lunedì 27 aprile 2009

Ancora sui fini del blog

(Siccome lo spazio per la presentazione è limitato a 500 caratteri, in questo primo spazio inserisco il continuo del discorso).

Oggi la filosofia viene confusa con la merce che i detentori di cattedre universitarie mettono sul mercato. Questi impiegati dell'Università italiana, superpagati e privilegiati, pubblicano libri senza aver nulla di originale da dire, e pubblicano solo per guadagnare. Gli editori non si preoccupano di quel che pubblicano, perché in fondo la cosa che per loro importa è solo il vendere: se il professore ha una cattedra e un nome, quasi certamente venderà.
A fare le spese di questo circolo vizioso, in cui a esser mercificato è tutto tranne che il talento (che appartiene a chi si sottrae al meccanismo) è la stessa cultura, e dunque la filosofia.
Questo blog vuole dare voce a chi la voce non la trova; per lo risonanza dobbiamo ancora attendere, ma siamo fiduciosi.
Ogni intervento, purché non offensivo o di contenuto deteriore, sarà ben accolto e nuovo oggetto di discussione.