mercoledì 29 aprile 2009

Wittgenstein, Della certezza: considerazioni sull'ignoranza degli scienziati

Nel corso della sua vita, Ludwig Wittgenstein ha pubblicato ben poco. Uomo eccentrico, libero pensatore, esule in Inghilterra durante la seconda guerra mondiale, e infine spirito in cerca di conferme sulla realtà. Si è detto di tutto, e ancora continua a dirsi, di quest'autore che ha influenzato e ancora influenza generazioni di studiosi di filosofia e scienze umane. Ispiratore del neopositivismo viennese, egli rifiutò il carattere dogmatico che questo movimento venne assumendo, così come ostile era nei confronti di ogni dogma. Eppure la cognizione della realtà gli pareva non poter prescindere da un residuo di esperienze che non sono apprese dai cinque sensi, che sottostanno alla stessa comprensione, alla stessa facoltà che rende l'uomo un essere capace di pensare ed elaborare opinioni.Dove nasce il senso comune, e come si sviluppa? Quali sono i suoi limiti? Questi sono interrogativi che compaiono in questo libro, pubblicato postumo in Inghilterra col titolo On certainty, ossia Sulla certezza.Il titolo più appropriato, ci suggerisce uno studioso italiano del filosofo austriaco, sarebbe invece Sul credere. Credere ed esser certi di qualcosa sono, in definitiva, un oggetto costante della riflessione wittgensteiniana. Il materiale qui raccolto non fu elaborato in forma di libro dal suo autore; il libro esce grazie al lavoro dei suoi devoti esecutori testamentari, che hanno raccolto annotazioni dal materiale informe ed eterogeneo del poco metodico filosofo. Poco metodico, e forse per questo, Wittgenstein era tanto attratto dalla questione del metodo. Ma l'importanza del filosofo non sta nelle osservazioni in sé, quanto nella pertinenza che rende il suo pensiero così sintomatico di un'epoca, di un periodo storico, dell'età contemporanea che è così segnata dal dominio della scienza su ogni settore della vita, e dunque della conoscienza, col risultato che ottiene istituendo l'autorità del calcolo e della misura sulla stessa conoscenza, sul conoscere umano. La scienza e il senso comune: si tratta di un binomio stranamente assortito, in cui le due parti sono apparentemente estranee, ma che viste da vicino sembrano nutrirsi l'una dell'altra. Nelle pagine di questo libro vediamo come l'autore cerchi di scindere le due parti, non per dividerle ma per cogliere l'identità dell'una e l'identità dell'altra. Aldo G. Gargani, nell'introduzione italiana all'opera, esordisce così dicendo: "Sembra giusto ritenere che la scienza, soprattutto a partire dal secolo XVII, con la sua strutturazione meccanicistica, abbia scisso il sapere dal senso comune. La tesi di Galilei, Descartes, Hobbes e di altri sulla soggettività delle qualità sensibili ha espropriato dall'universo fisico oggettivo sapori, odori, colori (e insieme anche valori etici ed estetici) con i quali il senso comune produce la sua percezione del mondo fisico. La scienza avrebbe così svalutato i canali ordinari attraverso i quali il senso comune stabilisce il proprio contatto con gli oggetti fisici. Con l'introduzione, inoltre, di tecniche sempre più raffinate e invadenti di formalizzazione matematica, essa avrebbe sottratto agli uomini comuni, al pensiero popolare la visibilità della natura". Siamo d'accordissimo, ma vorremmo aggiungere che, a un certo punto, la visibilità della natura si sottrae persino agli uomini di scienza, al cosiddetto "clero" della nuova religione del mondo moderno, ossia la scienza. Wittgenstein non parla in questi termini, siamo noi a permetterci una piccola divagazione personale. Lo scienziato, lo specialista, di fronte a sé ha il dato che studia e analizza, ma basta questo a rendergli "visibile" la natura? Siamo davvero sicuri, ci domandiamo, che il dominio dei mezzi tecnici più sofisticati possa consentire agli uomini tecnicamente competenti di dominare quel che hanno di fronte - e anche di comprenderlo? O forse accade il contrario: sono i mezzi di osservazione adottati, che limitano l'osservazione dell'uomo, e dunque decidono della visibilità di ciò che si osserva? Noi crediamo che sia così, che la certezza dei risultati d'indagine sia pur sempre condizionata dai metodi e gli strumenti impiegati - e questi sono sempre e inevitabilmente limitati - e perciò la scienza non autorizza l'uomo ad esprimersi in termini che superino i confini dello sperimentabile e del misurabile. Si tratta qui dell'antitesi fra misura quantitativa e valore qualitativo: non si può esprimersi sul secondo facendo ricorso alla prima. "Non soltanto so che la Terra esisteva già molto tempo prima che io nascessi, ma so anche che è un grosso corpo; che questo è stato accertato, che io e gli altri uomini abbiamo molti antenati, che ci sono libri che trattano di tutte queste cose, che questi libri non mentono, ecc. ecc. ecc. E tutto questo lo so? Lo credo. Questo corpo di conoscenze mi è stato tramandato, e non ho nessuna ragione per dubitarne; anzi, ho ogni sorta di conferme. E perchè non devo dire che tutte queste cose le so? Non si dice forse proprio questo? Ma tutto questo non lo so, o lo credo, soltanto io: lo sanno e lo credono anche gli altri. O piuttosto io credo che lo credano" (288). Questo è il punto di vista dell'uomo comune, ma l'uomo di scienza non è lontano dal fondare il suo conoscere su simili princìpi. Ossia: l'uomo di scienza crede a quel che gli suggerisce il termometro, che misura l'innalzarsi della temperatura in concomitanza dell'ebollizione dell'acqua, ma non può sospettare che il liquido cambi, e inizi ad ebollire in concomitanza di temperature diverse. Qui la realtà si rende conoscibile allo scienziato attraverso le certezze che il termometro (come qualunque altro mezzo di misurazione o strumento tecnico) gli offre, ma lo scienziato non può affatto esser certo che il suo fondamento di certezza sia davvero certo. Ossia, non può sapere se il termometro lo inganna, o è accaduto qualcosa che rende inesatta la sua misurazione. Si tratta pur sempre di una fede: lo scienziato ha fede nei suoi mezzi di misurazione, e su questi fonda la certezza e la propria cognizione della realtà. La certezza, come ogni credenza, si trova in artificioso equilibrio, sul baratro di tutto quel che supera il finito ambito del verificabile.

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